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Siria, il graduale riposizionamento di Hezbollah

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(di Lorenzo Trombetta, Limesonline) Alla luce del perdurante conflitto in Siria, in Libano Hezbollah sta lentamente cambiando atteggiamento in nome della priorità di mantenere la sua legittimità e la sua forza. Senza aver abbandonato il presidente Bashar al Asad, nelle ultime settimane il movimento sciita alleato dell’Iran ha inviato segnali di voler trovare un compromesso con le altre forze locali e di non potersi più prestare al rischioso gioco del regime di Damasco.

Il primo segnale è giunto quando l’ex ministro libanese Michel Samaha è stato arrestato perché accusato di aver partecipato, assieme ad alti ufficiali di Damasco, alla preparazione di attentati terroristici contro personalità ostili al regime siriano in Libano. Ad arrestarlo sono stati i servizi di sicurezza della polizia, tradizionalmente vicini all’Arabia Saudita.

Hezbollah, che controlla invece altre due agenzie d’intelligence libanesi, aveva immediatamente affermato che Samaha era vittima di un complotto per indebolire la Siria. Quando 24 ore dopo è stata confermata la notizia che Samaha aveva ammesso tutte le accuse e che queste erano supportate da intercettazioni e registrazioni audio e video di un informatore della polizia, Hezbollah ha fatto un passo indietro.

Sulla stampa libanese sono in seguito trapelati i verbali degli interrogatori di Samaha e le trascrizioni delle conversazioni dell’ex ministro con l’informatore. Rivelazioni che Hezbollah non ha di fatto commentato e che raccontano in modo esplicito il disegno di cui faceva parte l’ex ministro.

Su richiesta del generale Ali Mamluk, da metà luglio capo dell’Ufficio della sicurezza nazionale – ma per anni e fino a pochi mesi fa responsabile di una delle quattro agenzie di controllo – Samaha si è recato a Damasco e ha personalmente portato in Libano una serie di ordigni esplosivi pronti per essere usati.

Con grande sorpresa degli inquirenti, che al momento dell’arresto e della perquisizione credevano di trovare solo i soldi utili a Samaha per pagare gli esecutori materiali degli attentati, le bombe pronte per essere usate sono state rinvenute in una delle abitazioni dell’ex ministro.

Al di là dell’imbarazzato silenzio di Hezbollah, quel che tutti gli osservatori si sono domandati è perché mai il regime siriano, da decenni abituato a condurre questo genere di operazioni, sia dovuto ricorrere agli uffici personali di un ex ministro libanese per portare dell’esplosivo a Beirut e distribuirlo ai vari attentatori.

Fonti vicini alle indagini hanno confermato che si tratta dello stesso esplosivo usato in quasi tutti gli attentati terroristici degli ultimi anni in Libano. Un tipo di esplosivo che non è made in Syria e che solitamente è stato sempre fornito dal mercato interno libanese.

L’ipotesi – e finora rimane tale - è che con l’aggravarsi della guerra in Siria alcuni tradizionali alleati di Damasco in Libano abbiano cominciato a prender le distanze.Non si tratta solo di Hezbollah ovviamente, ma anche del presidente del parlamento Nabih Berri e di tantissime altre personalità minori che da almeno trent’anni servono gli interessi degli al Asad. Per questi personaggi, la vita deve continuare anche dopo l’eventuale caduta del potere in Siria.

Un altro segnale di possibile e lento mutamento dell’atteggiamento di Hezbollah sono le recenti dichiarazioni del premier libanese Najib Miqati e del presidente della Repubblica Michel Suleiman sulla necessità di far rispettare l’ordine nel paese e di proteggere la sovranità del Libano da tutte le minacce esterne.

Il riferimento è alle sempre più frequenti violazioni da parte delle forze governative siriane del territorio e dello spazio aereo libanese, in particolare nella regione nord-orientale dell’Akkar confinante con la ribelle area siriana di Homs.

Le parole decise di Miqati e Suleiman si riferiscono anche all’ondata di rapimenti registratasi a metà agosto da parte di milizie sciite – apparentemente non legate a Hezbollah ma operative in territori che non possono non essere sotto il controllo del movimento libanese – nei confronti di una trentina di siriani e di due turchi, un camionista e un imprenditore.

Le azioni sono state compiute come rappresaglia per il sostegno turco ai ribelli siriani anti-regime. Una loro frangia nel nord di Aleppo aveva rapito a maggio scorso undici sciiti libanesi. In un video amatoriale, la cui autenticità non può essere confermata, una sedicente brigata dell’Esercito libero siriano (Esl, i ribelli) annunciava a inizio agosto di aver catturato un cecchino di Hezbollah presentatosi come Hasan Miqdad, giunto in Siria con altri mille suoi compagni a sostegno della repressione del regime.

Gli autori dei rapimenti di siriani e di due turchi a Beirut a ridosso di Ferragosto sono stati miliziani del clan Miqdad, basati in un quartiere della periferia sud della capitale, roccaforte di Hezbollah. Mentre nella valle della Beqaa altri siriani sono stati rapiti da un’oscura sigla: le brigate Mukhtar al Thaqafi (condottiero degli albori dell’Islam che nella storiografia sciita è diventato uno dei simboli della lotta contro l’oppressore sunnita).

Il riemergere del fenomeno dei rapimenti in Libano ha rievocato i cupi fantasmi della guerra civile e quasi all’unanimità politici e gente comune hanno espresso la loro condanna per simili azioni. Hezbollah, tramite il suo segretario generale il sayyid Hasan Nasrallah, anche in quel caso ha preso le distanze, affermando che Hasan Miqdad – l’uomo mostrato nel video da sedicenti ribelli siriani – non appartiene al partito,il quale non ha alcun controllo sui Miqdad e sulle altre milizie, non avendo inoltre il controllo del territorio nel quale sono avvenuti i rapimenti.

Chiunque viva in Libano e abbia avuto modo di recarsi nella periferia sud di Beirut e in alcune aree della Beqaa può facilmente smentire Nasrallah. Ma al di là dell’infondatezza della dichiarazione del leader sciita, il segnale inviato da Hezbollah è stato esplicito: noi non c’entriamo.

Qualcosa dietro le quinte inizia a muoversi: a fine agosto, dalla martoriata regione di Aleppo, uno degli undici sciiti libanesi torna a Beirut dopo settimane di negoziati tra Turchia, Libano e ribelli siriani.

Il presidente Suleiman – che deve anche agli al Asad la sua fulgida carriera ai vertici dell’esercito e la sua ascesa alla presidenza – invia poi una lettera formale di protesta alle autorità siriane per le continue violazioni territoriali, i ferimenti e le uccisioni di civili libanesi da colpi di arma da fuoco e bombe giunte in Libano dal territorio siriano. L’ambasciatore siriano a Beirut salta sulla sedia ma Hezbollah rimane in silenzio.

Analogamente, mentre a Tripoli, nel nord del paese, si svolge l’ennesimo round di fuochi d’artificio tra il clan alawita armato pro-Asad degli Eid e i miliziani sunniti figli di coloro che resistettero all’occupazione siriana negli anni Ottanta, il premier Miqati – amico personale di Bashar al Asad e capo di un governo dominato di fatto dal movimento sciita – si lancia in dichiarazioni sulla necessità di far rispettare l’autorità dello Stato. Anche in questo caso, Hezbollah tiene un atteggiamento assai defilato.

Mentre è un crescendo di dichiarazioni contro chi viola la legge e la sovranità del paese, a Beirut appaiono cartelloni pubblicitari che inneggiano alla determinazione dell’esercito: “Dal cuore… e fino ai confini” è lo slogan della campagna finanziata dalle Forze armate (QUI IL VIDEO DELLO SPOT).

Si parla esplicitamente di presenza dell’esercito libanese ai confini: è una novità per ora solo retorica ma che cela un messaggio fin troppo chiaro. Nello slogan più lungo trasmesso alle radio si afferma l’intenzione dei soldati libanesi di difendere la patria “da chiunque voglia attentare alla sua sovranità”. Chiunque, non solo il nemico israeliano.

È in questo clima che pochi giorni fa alcune unità dell’esercito governativo sono entrate in massa per la prima volta nella periferia sud di Beirut e in molte località del sud del Libano alla ricerca dell’ostaggio turco e degli ultimi quattro siriani detenuti dai Miqdad. Che nel giro di 48 ore hanno rilasciato tutti gli ostaggi senza opporre troppa resistenza. Anche perché non c’era nessuno a proteggerli.

Non si è trattato di un’azione di forza dell’esercito di Beirut bensì di una manovra concertata con Hezbollah, che ha senza dubbio dato la preventiva luce verde all’operazione. Questa, in ogni comunicato dell’esercito, è stata descritta come “eseguita su ordine del comandante in capo il generale Jean Qahwaji”, che a sua volta prende ordini dal capo dello Stato.

Nelle stesse ore in cui i militari di Beirut scorrazzavano per le strade della periferia sud della città con la tacita approvazione di Hezbollah, al Manar – la tv del movimento – mandava in onda un servizio sulla distribuzione di aiuti umanitari a profughi siriani rifugiatisi nella regione a nord di Sidone, abitata in prevalenza da sunniti.

Nel frattempo, altri soldati libanesi arrestavano a nord di Tripoli una “banda” di otto persone dedita al rapimento di “oppositori siriani in Libano”. La procura militare di Beirut ha rinviato a giudizio gli otto, di cui cinque sono siriani e di questi uno è un colonnello dell’esercito di Damasco, che fuori dai confini aveva per mesi allegramente agito come “cacciatore di oppositori” del regime di al Asad.

Infine, all’indomani del ritorno in patria dei due ostaggi turchi, lo shaykh Abbas Zgheib, membro del Supremo consiglio sciita – vicino a Hezbollah – ha detto: “Ci attendiamo ora che la Turchia faccia un gesto di buona volontà”. Chissà che la liberazione degli ostaggi non sia stata la contropartita per il rilascio di uno degli undici libanesi rapiti nel nord di Aleppo. (Limesonline, 14 settembre 2012).


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